30 set 2007

MARIA DI FRANCIA

Non sappiamo molto di Maria di Francia le uniche informazioni a suo riguardo riportano che nacque nella seconda metà del XII secolo in Francia e che probabilmente seguì Eleonora di Acquitania, andata in sposa a Enrico II Plantageneto, in Inghilterra.
Era una donna di grande cultura, infatti, conosceva la letteratura francese e provenzale oltre che latina.
Il suo nome è legato ai 12 Lais, composti tra il 1160 e il 1175. I lais sono brevi poemi narrativi (in ottosillabi a rima baciata) la cui lunghezza varia tra i 118 e 1184 versi, per lo più di argomento amoroso e d’ambientazione fantastica influenzati dalla aneddotica storica, dalle novelle orientali, dai racconti biblici o cavallereschi soprattutto inerenti al ciclo bretone, al mito di re Artù.
Nei suoi componimenti ritrae, con pennellate cariche di delicatezza e grazia, non solo donne abbandonate e perseguitate ma anche cavalieri traditi o che devono pagare il fio per i loro errori. Tra i lais più noti Bisclavret, influenzato da leggende greche e latine oltre che britanne, infatti viene ripreso il mito dell’uomo mannaro. In questo componimento infatti il protagonista Bisclavret dopo aver rivelato il suo segreto all’amata viene da lei tradito e costretto a vagare nei boschi senza poter riprendere la forma umana. La storia termina con la vendetta del cavaliere che dopo essere stato condotto a corte dal re in persona si vendica sulla moglie traditrice staccandogli il naso con un morso, menomazione che sarà trasmessa alle figlie.
In Lanval, invece, si racconta di un giovane amato da una fata che rinuncia alla vita e si pone completamente alla merce della sua immortale compagna per assicurarsi la felicità ultraterrena; rielaborazione dunque del mito dell’uomo che vende l’anima al diavolo che però si carica di nuovi colori e sfumature grazie alla penna di Maria tanto da diventare una delicata storia d’amore.
Ecco un piccolo passo:
Dentro a quella tenda era la damigella. Passava di bellezza il giglio e la rosa novella, quando appare ver l’estate. Giaceva su di un bellissimo letto (che le lenzuola valevano un castello) con la semplice camicia; era di forme belle e gentili. In parte la riparava un prezioso mantello di bianco ermellino, coperto di porpora alessandrina; ma lasciava libero il fianco, il petto, il collo e il viso; era più bianca che fior di spina.Il cavaliere si fece innanzi e la damigella lo chiamò a sé; egli si assise di fronte al letto: "Lanval"- diss’ella;bell’amico, per voi sono uscita fuor della mia terra, di lontano sono venuta a cercarvi. Se voi siete prode e cortese, né imperatore né conte né re ebbe mai tanta gioia e tanti beni, ché io v’amo sopra ogni cosa".Egli la mirò e sì la vide bella; amore lo punse d’una scintilla, che s’apprese al suo cuore e lo infiammò. Rispose con bel garbo:"Bella dama, se a voi piaccia, e m’avvenga tal gioia d’esser amato da voi, eseguirò a mio potere ogni vostro comando, e sia volto a follia od a saggezza. Io vi servirò e abbandonerò tutti per voi. Chiedo d’esservi sempre vicino: quest’è la cosa che più desidero".Quando la damigella udì ch’egli poteva amarla a tal segno,gli accordò il suo affetto e il suo cuore.Ora è Lanval per la diritta via! Dopo, ella gli fece tal dono, che mai non vorrà cosa, di cui non abbia a suo talento: doni e spenda largamente, ch’ella gli fornirà quanto basta. Ora è Lanval ben provveduto! Più spenderà riccamente più avrà oro ed argento."Amico" diss’ella "ora vi ammonisco; ve ne prego e raccomando, non iscoprite la cosa a nessuno. Vi basti sapere che m’avrete perduta per sempre se altri conoscerà quest’amore; non mi potrete vedere, né possedere mai più."Egli risponde che terrà fede al suo comando…

Dal ciclo bretone, invece, è tratto il Lai du Chèvrefeuille, (il caprifoglio) in cui la poetessa mostra tutta la sua sensibilità e bravura quando descrive Tristano allontanato dalla corte a causa del suo amore per Isotta decide di tornare in Cornovaglia per cercare di mettersi in contatto con l’amata, per poter godere ancora della sua compagnia.
IL CAPRIFOGLIO

Assai mi piace, e ben lo voglio, del lai che si chiama "Caprifoglio" ch’io vi narri il vero, come fu fatto, ed in quale occasione.
Molti me lo hanno detto e raccontato, ed io l’ho trovato in iscritto, di Tristano e della regina, del loro amore che fu tanto fino, ond’ebbero tanti dolori, e poi ne morirono nello stesso giorno.
Il re Marco era in corruccio: s’era adirato con Tristano suo nipote: lo licenziò dalla sua terra perché amava la regina. Quegli se n’è andato al suo paese, nel Sudgalles dov’era nato; vi rimase un anno intero, ché non gli era dato far ritorno; ma poi si mise in abbandono di morte e rovina.
Non dovete farne meraviglia: perché chi ama lealmente è ben dolente e affannato quand’è privo di ciò che desidera.Dolente e pensoso è Tristano: perciò si diparte dal suo paese; se ne va diritto in Cornovaglia, là dove abitava la regina. Tutto solo si caccia nella foresta, ché non voleva essere veduto; sull’imbrunire se ne usciva, quand’era tempo di ripararsi, e alloggiava la notte coi contadini e la povera gente.
Chiedeva loro le notizie di quel che faceva il re; e quelli gli dicono di aver sentito che i baroni erano chiamati da un bando: debbono venire a Tintagel, il re vi vuole tener festa, per la Pasqua di rose ci saranno tutti; vi sarà gran gioia e diletto, e col re sarà la regina.
Tristano l’udì; se ne allietò molto; essa non potrà far quel cammino ch’egli non la veda passare.Il giorno che il re si mosse, Tristano è tornato nel bosco lungo la strada che, a quel che sapeva, avrebbe percorso il corteo. Tagliò per mezzo un nocciòlo, e lo squadrò per bene. Poi ch’ebbe pronto il bastone, col coltello vi scrisse il suo nome.
Se la regina se ne accorgerà, ch’essa vi stava molto attenta – altra volta le era accaduta che l’aveva scorto così – ben conoscerà nel vederlo il segnale dell’amico suo.Ecco in breve quant’egli le aveva scritto: che a lungo era stato colà, e soggiornato in attesa, per ispiare e conoscere come avrebbe potuto vederla, perché non poteva vivere senza di lei. Di loro due era proprio com’è del caprifoglio che s’apprende al corilo: quando s’è allacciato e avvinto e s’è messo tutt’intorno al fusto, insieme possono ben durare; ma chi poi vuol separarli, presto il corilo se ne muore e del pari il caprifoglio. "Bell’amica, così è di noi: né voi senza di me, né io senza di voi". La regina se ne vien cavalcando; guardò tutto un declivio, vide il bastone: ben lo ravvisò e vi distinse ogni lettera.
Ai cavalieri che la scortavano e procedevano insieme, tosto comandò di fermarsi: voleva scendere e riposare; essi hanno obbedito.La regina si allontana dalla sua gente, chiama a sé la sua ancella, Brangania, che le era molto fida. Si scostò alquanto dalla strada; entro il bosco trovò colui che amava più d’ogni cosa al mondo. Fra loro si danno a un gran giubilo. Egli le parlò a tutto suo agio, ed ella gli manifestò il suo piacere; poi gli espose in qual modo potrà conciliarsi col re e che molto le era spiaciuto che gli avesse dato congedo: per le altrui accuse vi si era indotto.
A tanto si diparte, lascia l’amico suo; ma mentre si separavano, ecco si misero a piangere. Tristano ritornò al paese di Galles, fin che suo zio lo fece chiamarePer la gioia che aveva avuta della sua donna, quel dì riveduta, e, volle così la regina, per rimembrar le parole che le aveva scritto, Tristano che ben sapeva arpeggiare ne aveva composto un nuovo lai.Senz’altro ne dirò il nome: "Gotelef" lo chiamano gl’Inglesi, e i Francesi "Chevrefoil".Detta vi ho la verità del lai che ho qui narrato.

Oltre ai Lais Maria di Francia compose una raccolta di Favole, primo adattamento delle favole di Esopo giunto a noi, e L'espurgatoire de saint Patrice (Il Purgatorio di san Patrizio), che prendendo spunto dai racconti relativi ai viaggi nell’aldilà, narra delle sofferenze del Purgatorio.
In particolar modo sono interessanti il prologo e l’epilogo delle Favole poiché la poetessa rivela i destinatari e l’intento della sua opera:

Prologo
"Tutte le persone colte dovrebbero veramente dedicarsi alla lettura di buoni libri, scritti, esempi e massime che i filosofi si sono prodigati di scrivere e diffondere. Essi misero per iscritto i preziosi proverbi che sentirono e a cui affidarono una lezione morale affinché quelli che si prodigano per il bene potessero diventare migliori. Così fecero i nostri padri dell’Antichità. L’imperatore Romulus scrisse a suo figlio spiegandogli come fare a difendersi dagli inganni degli uomini. Esopo, che conosceva bene il suo signore, scrisse di lui alcune favole che aveva trovato e le tradusse dal greco in latino. La maggior parte delle persone si meravigliarono molto che Esopo impiegasse la sua intelligenza in un lavoro simile, ma nessuna favola è superficiale e tutte propongono nel finale, che custodisce il significato ultimo dei racconti, una lezione di saggezza. Non spettava a me, che deve mettere le favole in versi, raccontare le favole che compaiono in questa raccolta; mi è stato chiesto da colui che è il fiore della cavalleria, e dal momento che è un uomo come lui a chiedermelo, non ho alcuna intenzione di sottrarmi alla sua richiesta, sebbene mi costi lavoro e sofferenza e il disprezzo di alcune persone; comincerò dunque a raccontare la prima favola che Esopo scrisse e mandò al suo signore”.

Epilogo:

Alla fine di quest’opera che io ho composto e scritto in francese, mi menzionerò per farmi ricordare dai posteri: mi chiamo Maria e vengo dalla Francia. E’ possibile che alcuni chierici, tanti in verità, rivendichino come proprio il mio lavoro. Io non voglio che venga loro attribuito: che dimentica se stesso agisce in modo insensato. Ho cominciato a scrivere questo libro e a tradurlo dall’inglese in francese per amore del Conte Guglielmo, l’uomo più nobile di tutti i regni. Questo libro si chiama Esopo; fu infatti Esopo a tradurlo dal greco in latino e a farlo comporre. Il re Alfredo, a cui piaceva molto l’Esopo, volle tradurlo in inglese, e io, esattamente come l’avevo trovato, l’ho messo in versi francesi. Ora prego Dio onnipotente di farmi mettere mano ad un’opera che mi permetta di rendere l’anima a Lui.”








S. CATERINA DA SIENA

L’esperienza di vita di Santa Caterina da Siena non fu solo mistica e religiosa. Canonizzata da Pio II nel 1461, Santa Caterina fu proclamata Patrona d'Italia, assieme a San Francesco d’Assisi, nel 1939, Protettrice delle infermiere nel 1943 (da Papa Pio XII), Dottore della Chiesa Universale nel 1970 (da Paolo VI); infine, Compatrona d'Europa nel 1999 (da Giovanni Paolo II).
L'elemento che più caratterizza la vita di questa Santa, infatti, è la grande attività pratica (anche politica e letteraria) che la coinvolge per tutta la vita, alimentata da un intenso travaglio interiore e sostenuta da una profonda intuizione: quella dell’amore verso il divino e verso il mondo, testimoniato sempre con ardente passione.

Caterina nacque a Siena il 25 marzo 1347, ventesima figlia di Jacopo Benincasa, tintore di lana, e di Monna Lapa, figlia del poeta senese Puccio il Piacente.
Fin dalla più tenera età cominciò a mortificarsi fisicamente, ed in seguito ad una visione del Cristo, ricevuta a sei anni, decise di rimanere vergine.
Intorno ai dodici anni i genitori decisero di farle prendere marito, ma lei, che di nascosto si dedicava a pratiche ascetiche, dopo essersi rasata i capelli, coprì il capo con un velo e si chiuse in casa, senza piegarsi nemmeno alle opprimenti fatiche domestiche alle quali la sottoponevano per distoglierla dai propositi ascetici.
Osteggiata dai genitori, per diversi anni condusse una vita di sacrifici, dedita solo alla preghiera, chiusa nella sua stanza; finalmente, a diciotto anni, pur rimanendo nella propria abitazione, prese il velo delle Mantellate (suore così chiamate a causa del mantello nero indossato sul vestito bianco dell'Ordine Terziario Domenicano).
Nel 1370 decise di aprire il proprio cuore al mondo esterno, cominciando a dedicarsi all'assistenza degli ammalati in ospedale: insieme ad un gruppo di discepoli che la seguivano nei numerosi spostamenti, Caterina divideva il suo tempo fra la chiesa di San Domenico, l'ospedale e il lebbrosario, dove assisteva i malati e i moribondi.
Si narra che un giorno, pentita del disgusto provato al cospetto delle piaghe di un malato, la Santa abbia bevuto l'acqua utilizzata per lavarne la ferita, esclamando di non aver mai gustato cibo o bevanda tanto dolce e squisita.
I sonni di Caterina erano spesso accompagnati da visioni. Ad esempio, nella notte di Carnevale del 1367, le apparve, accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi, il Cristo, che le donò un anello e la sposò misticamente; quando la visione sparì, l'anello restò, visibile solo a lei. In un'altra visione Cristo le prese il cuore e lo portò via, ritornando poi con un altro cuore ancor più bello e vermiglio: il suo. Il Cristo donò a Caterina il suo cuore inserendolo nel costato e, a ricordo del miracolo, in quel punto le restò una cicatrice.
Ma Caterina non fu solo una mistica, si dedicò ad opere di carità, curò i malati, soccorse i poveri, assistette i carcerati, fu missionaria di pace; la sua piccola stanza, una sorta di “cella", divenne un cenacolo di persone colte e cominciò ad affollarsi di religiosi, di artisti e di dotti; rimase, tuttavia, anche un luogo di ritrovo per la gente semplice e per gli appartenenti a ordini religiosi diversi (Domenicani, Francescani, Agostiniani); questi presero il nome di "Caterinati" poichè, attratti dal suo carisma, vedevano in lei un punto di riferimento.
Ciò suscitò preoccupazione nei superiori dell'ordine, che, insospettiti, la chiamarono a Firenze per valutare la veridicità dei suoi accadimenti; lei si difese splendidamente e, dissipati dubbi e perplessità, si vide assegnare un maestro, frate Raimondo da Capua, suo futuro erede spirituale.
Ben presto in tutta Europa si diffuse la voce della sua fama e delle sacre stigmate, ricevute il 1 aprile 1375 in una chiesetta del Lungarno (detta ora di Santa Caterina).
Caterina cominciò, quindi, ad essere onorata come santa.
Nel 1376 i fiorentini le chiesero di intercedere presso Papa Gregorio IX per far togliere loro la scomunica che si erano guadagnati per aver formato una lega contro lo strapotere dei francesi; allora Caterina si recò ad Avignone con le sue discepole, tre confessori ed un altare portatile, e riuscì a convincere il Papa; Gregorio IX si lasciò anche persuadere ad abbandonare la “cattività avignonese”, riportando la sede papale a Roma dopo quasi settant'anni di esilio.
Nel 1378 Papa Urbano VI la chiamò a Roma per essere aiutato a ristabilire l'unità della Chiesa; a Fondi, infatti, i francesi avevano appena eletto l'antipapa Clemente VII.
Caterina lo sostenne, scrivendo diverse lettere ai capi di stato e ai cardinali di tutto il mondo. Inoltre, insieme ai suoi discepoli si recò a Roma, dove difese il Papa strenuamente.
Il 29 aprile del 1380, a soli trentatre anni, morì.


Fu sepolta nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva, ma nell'ottobre del 1381 il Papa Urbano VI accordò il permesso di staccare dal busto la Sacra Testa, che venne affidata a due frati e portata in segreto a Siena. L’11 maggio 1385, accompagnata da un'imponente processione, la reliquia fu trasportata nella chiesa di San Domenico, dove tutt'ora giace. Le rimanenti parti del corpo, divenute anch'esse reliquie, furono poste nel sarcofago sotto l'altare maggiore.

Caterina era semianalfabeta e non di grande cultura: non era andata a scuola e non aveva avuto maestri. Tuttavia, imparò seppur faticosamente a leggere e, più tardi, a scrivere (anche se la maggior parte dei suoi messaggi furono comunque scritti sotto dettatura).
Pur non avendo, dunque, propositi letterari, i documenti che ci ha lasciato, il “Dialogo della divina provvidenza” e le “Lettere”, sono fra opere più belle e meno note del ‘300; anche se scarsamente elaborate e talvolta caratterizzate da un'eccessivo ardore, si tratta comunque di pagine d'insolita altezza spirituale.
Il “Dialogo della divina provvidenza”, una delle più notevoli opere mistiche di tutti i tempi, costituisce la vera summa delle sue esperienze di fede e della sua dottrina.
Le “Lettere”, in tutto 381, indirizzate a persone di ogni condizione, s’inseriscono nel filone letterario religioso trecentista, prevalentemente rivolto non alla creazione d’immagini poetiche ma ad un fine esclusivamente pratico. Santa Caterina, infatti, si servì delle lettere per nobili scopi: lenire i dolori del prossimo, predicare la riforma della Chiesa, restituire a Roma la sede pontificia.
Animata da un intenso fervore religioso, spinta da un autentico desiderio di rinnovamento dell’umanità, la Santa scriveva messaggi vigorosi e forti, caratterizzati da un linguaggio coinvolgente e carico.
Tra le varie lettere scritte da Caterina, la più suggestiva è senza dubbio quella che scrisse in occasione della morte di Nicolò di Tuldo, un giovane gentiluomo fiorentino accusato, nel 1375, di aver ordito una congiura ai danni di Siena.
Condannato a morte ingiustamente, l’uomo non aveva voluto ricevere i conforti religiosi da nessuno; solo Caterina riuscì a vincere le sue resistenze, andò da lui e gli parlò, infondendo nel suo animo serenità e pace.
La lettera è di eccezionale bellezza per l’intensità e il vigore del suo linguaggio, ma colpisce anche la tenerezza e l’accesa passionalità delle parole.