15 set 2007

RITRATTI DI SANTE: S. Chiara d'Assisi

«Io, Chiara, pianticella del nostro Santo Padre Francesco…», così amava definirsi la Santa di Assisi.
L’immagine risale forse al fatto che la madre di lei portava il nome di Ortolana e perciò si diceva che Chiara fosse stata da lei coltivata «come una piantina fruttifera nel giardino della Chiesa».
Certo fu Francesco a farla crescere e maturare, quando la fanciulla, ancora diciottenne, si rifugiò da lui per chiedergli di consacrarla al Signore; ma è indubbio che Chiara assorbì la prima linfa dalla madre, donna di eccezionale forza e dolcezza.

Il primo biografo, Tommaso da Celano, scrive con delicatezza che la grazia divina dovette prima impregnare a fondo le radici (cioè la madre) «acciocché poi nella ramicella seguitasse copia di santità».





E madre e figlia furono così unitamente abbracciate dalla grazia di Dio che Ortolana finirà la sua vita nel monastero di Chiara, lasciandosi condurre a Dio, nella sua vecchiaia, dalla figlia spirituale divenutale spiritualmente Madre.
Allora la vecchia Ortolana racconterà sottovoce alle consorelle d’avere sempre conosciuto il destino di quella bambina: da quando aveva pregato dinanzi a un Crocifisso, nell’imminenza del parto, per chiedere protezione, e s’era sentita dentro una voce che le diceva: «tu partorirai una luce che riempirà il mondo!». Per questo l’aveva chiamata Chiara!
All’infanzia di Chiara non mancarono né la dolcezza, né la sofferenza.
La dolcezza, perché i ricordi di quegli anni sono già tutti impregnati di tenerezza francescana: una sensibile compassione per i diseredati, un amore precoce per il Crocifisso, una spontanea felicità durante le sue preghiere di fanciulla.
Dicevano che, dopo la preghiera, la bambina avesse «un buon odore di cielo».
Ma ci fu anche tanta sofferenza perché la sua famiglia, quando Chiara aveva sei anni, dovette subire un lungo esilio, a Perugia, assieme ad altre famiglie di nobili che avevano inutilmente osteggiato la nascita del governo comunale di Assisi.
Fu solo nel 1205, quando Chiara aveva dodici anni, che poterono tornare in patria.
Con i fuoriusciti rientrarono ad Assisi anche i prigionieri di guerra, tra cui un giovane borghese, brillante e scapestrato, che sembrava essere impazzito in carcere: Francesco di Pietro di Bernardone.
Gli abitanti della piccola cittadina rimasero subito sconvolti dalle sue stranezze: dapprima s’era messo a riparare la vecchia chiesa diroccata di San Damiano, dove passava lunghe ore in preghiera; poi sulla pubblica piazza – chiamato in giudizio davanti al vescovo – s’era spogliato di tutto, rinunciando ad ogni eredità e scegliendo di vivere come un pezzente.
Aveva gridato di non voler avere altro Padre se non quello dei cieli. E i balconi del palazzo di Chiara, a fianco della cattedrale, s’affacciavano proprio sulla piazza di San Rufino.

Chiara segue “da lontano” l’avventura di Francesco e dei giovani d’Assisi che l’avevano seguito. Tra essi c’era Rufino, un cugino di Chiara. Vivevano alla Porziuncola, vicino a una cappelletta dedicata a Santa Maria degli Angeli. Lavoravano con le loro mani, vivevano di elemosina e si diceva che si prendessero cura dei lebbrosi, presso la località di Rivotorto.
Cominciarono così gli incontri segreti tra Chiara e Francesco. Incontri voluti da ambedue – dice il primo biografo – perché lei era «desiderosa di vedere e di ascoltare quell’uomo nuovo», e lui «colpito dalla vasta fama di una fanciulla così ricca di grazie, non meno desiderava di vederla e di parlarle… per strappare al mondo quella nobile preda».
Di nascosto, accompagnata dalla più cara amica, Chiara si recava da Francesco.
Era ormai prossima la festa solenne delle Palme e Chiara, con cuore ardente, si reca da Francesco per chiedergli consiglio: la fanciulla ha ormai deciso di cambiare radicalmente la propria vita.
Francesco le ordina di accostarsi alle Palme nel giorno festivo, in mezzo al popolo, ben vestita ed adorna.
Quel giorno, nella cattedrale di Assisi, Chiara ebbe un importante presagio.
Quando giunse il momento in cui le fanciulle nobili dovevano salire all’altare, per ricevere dalle mani del Vescovo la palma benedetta, prima della solenne processione, Chiara restò assorta al suo posto, probabilmente persa nella contemplazione di quel sogno divino che le riempiva il cuore.
Si vide allora il Vescovo discendere i gradini dell’altare, per venire a portare la palma alla fanciulla: allora Chiara capì che Cristo veniva, per mezzo del suo Ministro, a sceglierla come Sposa.

La notte seguente la ragazza fuggì di casa, da un uscio secondario per non essere vista: ed eccola sola nel buio, scendere in fretta la collina d’Assisi verso Santa Maria degli Angeli, dove l’attende Francesco.
Dopo aver cantato le lodi del mattino, Francesco le taglia i lunghi capelli biondi, li copre con un velo nero, e ricopre le sue bianche vesti di fanciulla con un saio povero e scuro.
Oggi, noi tendiamo ad immaginare questa fuga notturna come un episodio romantico e dolce; in realtà, Chiara e Francesco ben sapevano d’aver dichiarato guerra a un’intera città.
Se era stata traumatica e contestata la prima decisione di Francesco di “uscire dal mondo”, e se ancora di più lo era stata quella dei tanti giovani che avevano preso a seguirlo, che cosa sarebbe accaduto ora che perfino una fanciulla nobile e ammirata si lasciava travolgere da quella follia, aprendo un varco che nessuno avrebbe potuto più chiudere??
Siamo nel 1212. Già nell’agosto del 1228 (quando Chiara domanderà al Papa Gregorio IX il «privilegio della povertà») saranno già stati fondati in Italia almeno venticinque monasteri di clarisse. E alla morte di Chiara, i monasteri sparsi in tutto il mondo saranno almeno centotrenta.
Ma quella notte Chiara è sola; in fretta Francesco la conduce in un monastero di suore benedettine tra Assisi e Perugia, dove la fanciulla chiese asilo.
Al loro arrivo i parenti trovarono Chiara inginocchiata ai piedi dell’altare, avvolta in quella veste indecorosa che li faceva fremere di sdegno.
Quando i parenti tentarono di dissuaderla, prima con lusinghe e poi con violente minacce, Chiara compie quel gesto magnifico e irreparabile che nella società medioevale era immediatamente compreso. Si toglie il velo e la testa malamente rasata dice a tutti che la fanciulla ha ormai “ripudiato il mondo”; e intanto stende la mano per afferrarsi alle tovaglie dell’altare: un umile aggrapparsi alle vesti di Gesù.
Ora tutti sanno che la Chiesa-Madre difenderà gelosamente quella creatura, come intangibile proprietà di Cristo. E nessuno osa più stendere su di lei la mano.
La prima a seguire Chiara è Agnese, la sorella. Vennero poi le amiche di Chiara.
Iniziò così la storia delle «poverelle Donne di san Damiano».
Francesco ottenne che quella prima chiesetta ch’egli aveva riedificato venisse adattata a monastero e posta sotto la protezione del Vescovo.
Egli stesso scrive per loro la prima “Formula vitae”: più che una regola, una sorta di documento di alleanza fra i frati di Francesco e le suore di Chiara.
Le monache di San Damiano impararono subito non solo la «mistica sponsale» (la scelta appassionata di Cristo Sposo), ma anche la «mistica materna»: esse dovevano vivere quotidianamente il mistero dell’Incarnazione, abituandosi a essere una “culla vivente”, un grembo per il Figlio di Dio che chiede di venire al mondo.
Per disporsi a un tale mistero, condizione indispensabile era la povertà: «Non voler aver nulla, se non Nostro Signore».
Proprio per questo motivo, Chiara ricorse più volte al Santo Padre perché voleva per iscritto, confermato dalla suprema autorità, il privilegio che le sue comunità restassero sempre assolutamente povere.
Papa Gregorio IX, in un primo tempo, chiese affettuosamente a Chiara di ripensare alla questione della Povertà, ricordandole che le circostanze della vita erano tante e tanti erano i pericoli del mondo. Un qualche possesso – anche se limitato – avrebbe meglio garantito i suoi monasteri, assicurandole sopravvivenza e libertà.
Ma Chiara non aveva voluto cedere. Così Gregorio IX scrisse di suo pugno, sulla povera tavola del refettorio di San Damiano, il testo di quello strano privilegio.
Prima di ripartire per Roma il Papa volle condividere il semplicissimo pasto delle monache. Un cesto di pani era tutto ciò che esse potevano offrire e il Papa costrinse Chiara a benedire la mensa.
Ed ecco che, al gesto di lei, proprio sotto gli occhi del Pontefice, la crosta dei pani si aprì leggermente, formando una croce ben delineata.
La vita di Santa Chiara si svolse nella totale obbedienza a quelle «ultime volontà per le suore di Chiara» che Francesco dettò nel 1226, prima di morire:
«Io piccolo frate Francesco voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signor Nostro Gesù Cristo e della sua Santissima Madre e perseverare in essa fino alla fine. E prego voi, mie Signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà. E guardatevi attentamente dall’allontanarvi mai da essa in nessuna maniera, per l’insegnamento o il consiglio di qualcuno».
La vita nel monastero era tutta impregnata di questa passione.
Come spiegare le dure penitenze di Chiara, i digiuni prolungati, i suoi cilici insopportabili, le lunghe notti passate in preghiera prostrata a terra per ore ed ore, il riservare a se stessa le incombenze più umili e disgustose, il voler baciare e lavare i piedi infangati delle suore che tornavano dalla questua??
Eppure nessuno mai la vide triste. «Se è vero – osserva il cronista – che una dura penitenza fisica genera di solito depressione spirituale, l’effetto risplendeva in Chiara ben diversamente: in ogni sua mortificazione manteneva una sembianza gioiosa.»
Tanto era severa con se stessa, tanto era «benigna e amorevole» con le sue monache. Diceva che una superiora deve sapere «consolare le afflitte ed essere l’ultimo rifugio delle tribolate».

Celebre è inoltre l’episodio dell’assalto dei mercenari Saraceni al Monastero. Li aveva scagliati contro Assisi, per far dispetto al Papa, Federico II.
La città si era preparata all’assedio, ma San Damiano è fuori dalle mura, e non c’è nessuno a difendere quelle «povere Donne». Non ci sono neppure i frati e Francesco era ormai morto.
Chiara è da tempo malata, immobilizzata nel suo povero lettuccio di paglia, che ha dovuto accettare per obbedienza.
La Santa si fa condurre davanti alla porta del monastero e davanti a sé fa mettere il cofanetto d’argento che custodisce l’Eucaristia.
A fatica si prostra a terra. Quando già i crudeli Saraceni hanno scavalcato il muro di cinta del monastero, Chiara sfiora con le mani il prezioso cofanetto.
Prega: «Signore, guarda tu queste tue serve, perché io non le posso guardare».
E le due sorelle che sostengono Chiara odono la voce dolcissima di un bambino, proveniente dal Tabernacolo, che dice «Io ti difenderò sempre».
Nessuno sa quel che accadde. Improvvisamente però i Saraceni si ritirarono, senza osare avvicinarsi alla porta dove Chiara pregava.
Alla sera di quel giorno, ella chiamò le due sorelle e fece loro giurare che, lei viva, non avrebbero mai raccontato a nessuno quel che avevano udito.

Ritornando al rapporto che legava Chiara e Francesco, dobbiamo inoltre ricordare che il celebre Cantico delle creature Francesco lo cantò per la prima volta davanti a Chiara.
Quasi cieco e febbricitante, col corpo ormai stigmatizzato, il Santo di era eccezionalmente rifugiato in una celletta di stuoie che i suoi frati gli avevano costruito nell’orto del monastero.
Vi restò due mesi e Chiara gli tessé dei morbidi guanti per coprire quelle sante mani ferite; gli aveva anche preparato un unguento di aromi, per curare le piaghe sanguinanti.
E un giorno le suore lo sentirono cantare quella sua dolcissima poesia.
A Chiara Francesco confidò che l’aveva composta per l’intima gioia di una rivelazione notturna. Dio l’aveva misericordiosamente rassicurato d’avergli perdonato tutti i peccati e che poteva essere certo della salvezza. Per questo egli si era sentito in pace e in ringraziamento verso tutte le creature!
Qualcuno disse che gli aveva pensato spontaneamente a Chiara, quando compose il verso:
«Laudato sì, mi Signore, per sora luna e le stelle
in celu l’hai formate chiarite
et pretiose et belle».
Chiara sopravvisse a Francesco di ben ventisette anni, tutti passati a difenderne l’eredità e la memoria. La sua vecchiaia fu costellata di quella tenerezza che ella aveva imparato da lui, tenerezza che andava anzitutto e sempre al santo Bambino del Presepio, a Cristo povero Crocifisso e all’Eucaristia.
Chiara era ormai vecchia, ma non voleva morire prima che il Papa le avesse definitivamente confermato, con tanto di sigillo pontificio, la Regola che lei stessa aveva scritto al termine della sua esperienza.
Era il primo caso, nella storia della Chiesa, di una donna che scriveva una regola per altre donne.
E diceva che aspettava solo di poter baciare quel sigillo, e il giorno dopo morire.
E il Papa Innocenzo IV venne. Entrò commosso nella povera celletta.
«Padre Santo», - disse Chiara morente - «ho bisogno di essere perdonata da tutti i miei peccati.» Il Papa le rispose: «Volesse il cielo che io avessi bisogno di perdono quanto ne hai tu!».
Quando l’indomani giunse un cardinale a consegnarle l’implorata bolla pontificia, Chiara la baciò come aveva desiderato e il giorno dopo morì.