28 set 2007

"ELLA NON PAREVA FIGLIUOLA D'UOMO MORTALE, MA DI DEO...": BEATRICE

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua devèn tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che n'tender no la può chi no la prova:
e par che la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: "Sospira".


Con queste parole Dante Alighieri definisce Beatrice, la donna da lui cantata nella Vita Nuova e celebrata poi nella Divina Commedia.
Ma chi è Beatrice? Donna reale o fantasia poetica? La critica ha molto discusso su questo punto e c'è chi non manca di considerare Beatrice una figura ideale e simbolica. Tuttavia, per la maggior parte degli studiosi, ella è realmente esistita e va identificata con Beatrice, o Bice Portinari, sposa di Simone De' Bardi, morta giovanissima l'8 giugno 1290, che egli ebbe modo di incontrare durante la sua giovinezza fiorentina.
Nell'amore per Beatrice Dante concentra tutto il senso e il valore del proprio impegno morale; nonostante nella realtà i contatti tra i due fossero sporadici, l'amata rappresenta per il poeta un amore supremo nel quale specchiare le proprie scelte e il proprio desiderio di giustizia e verità.
Dante, all'inizio, l'amò secondo i canoni dell'amor cortese, cantando la dolcezza dei suoi occhi, la bellezza del suo viso, la sua grazia e la gentilezza dei suoi gesti e presentando un sentimento d'amore vissuto come servizio.
Nella Vita Nuova si assiste ad una svolta.
Egli presenta la donna con una nuova, intensa concentrazione simbolica: Beatrice è la "beatrice", colei che dispensa beatitudine, un angelo venuto in terra ma rimpianto dal cielo e lì destinato a fare ritorno. Essa è l'annuncio di una salvezza, di un riscatto di quanto di indegno e negativo ci sia nell'esistenza: "cosa venuta / di cielo in terra a miracol mostrare".
La Vita Nuova va quindi vista come l'opera in cui Dante narra una vicenda personale: il suo amore per Beatrice.
Nella Vita Nuova viene delineato il cammino interiore che porta il poeta a capire come il suo amore non sia finalizzato a nulla di materiale, neppure al semplice saluto, elemento presente nella lirica cortese. Unico obiettivo dell'amore è per il poeta quello di "lodare" la sua donna: Beatrice costituisce per Dante stimolo per l'introspezione spirituale e fonte di ispirazione letteraria. A conclusione dell'opera a Dante risulta chiaro quale sarà il suo compito: esaltare di fronte al mondo la figura di Beatrice e promette di non scrivere più di lei se non quando potrà farlo in modo completamente degno.
La Vita Nuova rimane così in sospeso, come un'opera provvisoria che attende di inverarsi in un'opera più ambiziosa: essa troverà, infatti, il proprio coronamento nella Divina Commedia, dove Beatrice si trasformerà in una figura salvifica che trascende la realtà mondana, ma che nello stesso tempo mantiene i caratteri di una creatura mortale.
Già nella Vita Nuova, ma ancor più nella Commedia, Beatrice viene accostata all'immagine di Cristo, basti pensare al ricorrere del numero nove, al costante uso di citazioni bibliche e alle numerose allegorie che avvicinano le due figure.
Beatrice, dunque, ritornerà nella II cantica della Divina Commedia: apparirà, infatti, nel Paradiso Terrestre per interrogare e rimproverar il poeta per i suoi traviamenti e ne diventerà la guida nel Paradiso.
Nella Divina Commedia Beatrice è rivelazione incarnata e simbolo di Cristo per l'intera umanità, il tramite che permette non solo a Dante ma all'umanità tutta, di arrivare al Paradiso e alla contemplazione di Dio.







VITA NUOVA (1292-1293; prosimetrum: 42 capitoletti in prosa + 31 liriche)

Il titolo allude alla rivelazione di un'esperienza assoluta che dà nuovi significati alla "vita" e la rinnova. La narrazione ha inizio con il primo incontro di Dante e Beatrice, quando il poeta aveva nove anni. Il successivo incontro avverrà nove anni dopo: in questa occasione Dante riceve il saluto della donna. Dopo un sogno, nel quale Amore invita la donna a cibarsi del cuore del poeta, Dante scrive il suo primo sonetto, come saluto a "tutti li fedeli d'Amore". Per qualche tempo, temendo che si possa giungere ad identificare in Beatrice la donna amata, contravvenendo così alle regole dell'amore cortese, Dante di serve dell'espediente della donna-schermo. Ma Beatrice, offesa, gli nega il saluto inducendo il poeta a comporre apertamente per lei.
In seguito ad una conversazione con una donna che gli fa avvertire come la sua beatitudine possa trovarsi solo nella "loda" della sua donna, Dante si affida alla poesia della "loda", un tema che occupa tutta la parte centrale dell'opera.
Tra annunci e premonizioni giunge la notizia della morte di Beatrice, che Dante non narra direttamente: egli insiste solo sul proprio smarrimento, sul senso di perdita legato all'assenza dell'amata. Passato un anno dalla morte di lei, prova simpatia e gratitudine per una "gentile donna", che gli dà conforto. Beatrice gli appare in sogno e lui prova vergogna per essersi distratto. Alla fine dell'opera si propone di non parlare più di Beatrice finchè non possa di nuovo "più degnamente trattare di lei".



LA DONNA "CORTESE"


L'amore cortese si impone come una forza assoluta, in quanto, estraneo al vincolo materiale del matrimonio, trova giustificazione in se stesso, rinuncia a ogni riconoscimento sociale ed è pronto a sfidare la presenza di un terzo (il marito della donna). La suprema intensità di questo amore accompagna il cavaliere come un bene totale, lontano da qualunque compromesso con la normalità quotidiana; e, come nel caso di Tristano e Isotta, l'amore trova nella morte la sua apoteosi, l'affermazione della sua assolutezza e della sua impossibilità. Il modello dell'amore cortese ha esercitato un fascino notevole nella storia della cultura e dell'immaginario occidentale; molti secoli dopo lo ritroviamo nelle forme dell'amore romantico.




La sua affermazione nella letteratura romanza non era solo frutto di un'invenzione letteraria, ma derivava da una modificazione profonda dell'esperienza amorosa e della sessualità. Nel mondo laico feudale si afferma una nuova immagine della femminilità: alla comunicazione con la donna-signora si attribuisce un valore superiore, una nobiltà assoluta; il rapporto con la donna amata va oltre il puro desiderio di possesso fisico, ma aspira a diventare un “valore”. La fedeltà a questo valore implica però una distinzione tra gli amanti in grado di viverla fino in fondo e il resto della società; anzi l'amore cortese si pone completamente al di fuori delle regole sociali. Per questo non può coincidere con quello matrimoniale (come teorizzato da Andrea Cappellano nel suo trattato De Amore), deve darsi in situazioni proibite, impossibili, rivolgersi a donne legate a un altro uomo.

LE STREGHE

Dalla seconda metà del Trecento la stregoneria, prima tollerata, venne definita un crimine, al culmine di un processo di sistemazione giuridica della materia della magia demoniaca. L’avversione della Chiesa alle pratiche magiche crebbe soprattutto nel Quattrocento, quando fu più chiaramente orientata verso le donne, dando luogo al fenomeno della “caccia alle streghe”, una tragedia che ne portò un gran numero al rogo.






Viene comunemente chiamata magia l’insieme di pratiche che una società, in genere si vive soprattutto di agricoltura, mette in atto per dominare il tempo atmosferico o per prevederlo, per ottenere la fertilità della terra e promuovere o limitare quella delle persone. Si tratta di riti che vengono tenuti segreti perché prevedono anche pratiche negative: quelle erotiche, quando vogliamo coartare la volontà individuale, “far innamorare”, o incidere sulla fertilità o infertilità, oppure l’infanticidio per limitare le bocche nei momenti di difficoltà, oppure il “furto magico”delle messi da un campo all’altro o il malocchio gettato sulle bestie del proprio vicino.
Durante la lenta conversione al cristianesimo, i vecchi riti campestri che l’Europa mediterranea aveva ereditato dalle divinità dei greci e dei romani e quella settentrionale dagli dèi dei celti e dei romani, avevano continuato a vivere, ancora fino all’XI, XII, XIII secolo. In area germanica, in particolare verso est, la diffusione del culto del nuovo Dio era stata condotta in gran parte con le armi e comunque accettata dai popoli soltanto perché così volevano i loro conquistatori o il loro re: ma, quando i soldati se ne andavano, che cosa poteva fare il prete missionario per mantenere la cristianizzazione imposta con le armi? Poteva soltanto predicare dando un senso cristiano al culto dei vecchi dèi che non riusciva a cancellare dalla memoria della gente. Senza negare la loro esistenza, semplicemente spiegava che erano demoni.
Nominate già nei testi altomedievali, le streghe affermavano di volare cavalcando demoni trasformati in animali e Agostino (354-430) raccontava che usavano per questo degli unguenti. C’è chi pensa che questi unguenti fossero composti con sostanze allucinogene e forse non a caso, secoli più tardi, un inquisitore spagnolo avrebbe raccontato che l’unguento faceva cadere le donne in un sonno profondo, una trance che le rendeva insensibili a tutto; ma la trance potrebbe essere anche introdotta da un fenomeno d’autoipnosi del quale l’ungersi era il gesto simbolico.
Ma perché solo le donne? È difficile rispondere a questa domanda, difficile spiegare l’ondata di misoginia che iniziò allora a manifestarsi dal momento in cui l'’Inquisizione affermò la linea dell’intolleranza, quando molte donne, sottoposte a interrogatori sempre più stringenti, finirono per confessare pratiche demoniache, forse per sfuggire, almeno per qualche istante, alla pressione della tortura fisica e psicologica, oppure perché la loro semplicità le rendeva inermi di fronte alla cultura e alla forza dell’inquisitore. Vero è che molta parte della magia popolare era sempre stata praticata da donne, nelle mani delle quali si trovavano i segreti della natalità – fertilità, contraccezione, aborto – e alle quali dunque erano affidati molti segreti della comunità e anche una parte importante della pratiche magiche di una società tradizionale nella quale il rapporto fra nati e morti doveva sempre rimanere in equilibrio perché ci fosse cibo per tutti. Erboriste, ostetriche, pediatre prima di tutto. E poi, certo, anche streghe.





Le tre date più importanti dell’avvio alla caccia alle streghe sono il 1348, quando alcune donne che vivevano isolate , spesso erboriste, ostetriche o guaritrici, furono accusate di stregoneria dalla gente e linciate, divenendo uno dei capri espiatori della peste; il 1484, quando il papa, allarmato dalla notizia di fatti stregoneschi avvenuti in Germania, intervenne contro certe donne che erano state accusate di abiura della fede, di rapporti sessuali con il diavolo e di danni a persone, animalo e ai frutti della terra; il 1487, quando due inquisitori scrissero il Malleus maleficarum (Martello delle streghe), un trattato che stabiliva per la prima volta che la stregoneria era solo femminile, che le streghe non erano visionarie, come aveva scritto Agostino, ma avevano davvero rapporti col diavolo, e che non avevano mai figli perché praticavano la contraccezione o l’aborto. Anche il volo notturno e il sabba, si disse, non erano sogni o allucinazioni, ma avevano luogo veramente.


PER UN CONFRONTO... LA DONNA NELLA SOCIETA' GRECO-ROMANO

Nella cultura della civiltà greco-romana la differenza tra uomini e donne ha una duplice natura: biologica e culturale. Dal punto di vista biologico, la donna assolve al compito fondamentale di riprodurre la specie. Nella società greca e in quella romana, come del resto in quasi tutte le civiltà antiche, la donna è vista essenzialmente come madre, è anzi il simbolo stesso della fecondità.
Nella cultura greca, la maggior parte delle donne conduceva una vita “interna”, privata, famigliare, per lo più chiusa nelle quattro mura domestiche.

Dopo il matrimonio, l’unico avvenimento pubblico della loro vita, le donne greche diventavano socialmente “invisibili”: non potevano prendere parte alla vita politica, né fare sport (tranne che a Sparta), né assistere agli spettacoli. Insomma, costrette a lavorare all’interno delle mura domestiche, non potevano partecipare ad alcuna delle attività per cui la civiltà greca è passata alla storia.
Le donne romane, invece, conducevano un’esistenza in parte diversa, che oggi diremmo “più libera”. Nei primi secoli della repubblica anche la donna romana era sotto la potestà assoluta del pater familias, così come i beni, gli schiavi e i figli. In epoca augustea (fine I secolo a.C.), però, questa situazione di totale indipendenza venne modificandosi: alla donna fu riconosciuta una libertà più ampia, sicuramente maggiore di quella concessale nell’ambito di altre civiltà. Nei tempi antichi, per esempio, solo il marito poteva ripudiare la moglie, mentre più tardi anche alla donna venne riconosciuto il diritto di intentare una causa di divorzio; inoltre, la dote che riceveva al momento del matrimonio anche in caso di divorzio rimaneva sua e ciò le conferiva una certa autonomia.
Questa autonomia non era certo sufficiente a emancipare la donna romana dal suo ruolo tradizionale di “regina del focolare” (e, infatti, la sua vita trascorreva prevalentemente dentro le mura domestiche), ma bastava per farle godere di alcune attività precluse alla donna greca: lo sport, per esempio, ma anche la vita culturale (teatro, filosofia, diritto) e religiosa. Fu quel che avveniva nei baccanali, manifestazioni religiose in onore del dio greco Dioniso (che i romani chiamavano Bacco). Durante questi riti, piccoli gruppi d’iniziati, uomini ma soprattutto donne, si abbandonavano a canti e danze sfrenate, durante le quali cadevano in una specie di trance ipnotica che consentiva loro un contatto diretto con la divinità. Anche questa era una forma estrema e molto discussa di liberazione femminile.





[ascolta il brano "Le donne di Atene" di E.Finardi]





GIOVANNA D'ARCO... FRA STORIA E RELIGIONE

Giovanna d’Arco, eroina e santa francese, è di origini contadine. Animata da una religiosità mistica, risentì profondamente della gravissima crisi attraversata in quegli anni dalla Francia, impegnata nella guerra dei Cent’anni e dilaniata dalle discordie interne fra le fazioni degli armagnacchi e dei borgognoni.
Ritenendosi investita della missione di salvare il regno di Francia, sentiva infatti voci celesti che le parlavano di questa suo compito, nel 1429 raggiunse il futuro Carlo VII a Chinon, ottenendo da questi il comando di un contingente con il quale marciò su Orlèans che, assediata dagli inglesi, era in procinto di cedere. Liberata la città dall’assedio (maggio 1492), con le vittorie di Jargeau, Beaugency e soprattutto di Patay (giugno 1429) guidò le forze francesi alla riconquista del territorio fino a Reims, dando grande impulso al sentimento nazionale.







Grazie alle imprese della “punzella d’Orleans” il sovrano francese potè entrare in Reims, dove il 17 luglio 1429 venne incoronato. Direttasi quindi verso Parigi per liberare la città, rimase ferita e dovette abbandonare l’impresa. Il 24 maggio 1430 fu catturata dai borgognoni a Compiègne e consegnata agli inglesi che la fecero processare con l’accusa di eresia e stregoneria (1431). Condannata al rogo, fu bruciata sulla piazza vecchia del mercato vecchio a Rouen il 30 maggio 1431. Solo nel 1450 Carlo VII fece aprire un’inchiesta sul suo caso. Riabilitata completamente nel 1456, beatificata nel 1909 da Pio X, nel 1920 fu canonizzata da Benedetto XV.

Oggi Giovanna d'Arco si trova al centro di una rete d’interessi talmente vasta e intricata che molti studiosi stanno ancora riflettendo sulla sua figura.
In Francia la si venera come una santa e al tempo stesso eroina nazionale, modello di virtù e liberatrice; le sue statue si incontrano in molti centri urbani e in quasi tutte le chiese, mentre le parti politiche da quasi due secoli se ne disputano immagine ed eredità morale.
Così parla di lei lo studioso F. Cardin (Giovanna d’Arco. La vergine guerriera, Mondadori, 1998), che la definisce una “figura moderna” adducendo queste motivazioni:
anzitutto per il carattere paradossale, in apparenza contraddittorio, della sua esperienza: una fedelissima figlia della Chiesa che finisce però come eretica; una rappresentante esemplare dell’identità francese, che però, in quanto contadina della regione Mosa, è al tempo stesso una marginale; una giovane donna fiera di quell’attributo così squisitamente cristiano che è la verginità […] e che tuttavia – dopo quella che per lei è la sua chiamata – rifiuta costantemente gli abiti femminili; una fanciulla fragile, di ferma intensa fede religiosa, che pure ha speso la sua breve esperienza pubblica in un’attività come la guerra.


[ascolta il brano "Giovanna d'Arco" di F. DeAndrè]