Il culto di Santa Rita da Cascia ha qualcosa di inspiegabile. Vissuta fra la fine del ‘300 e la prima metà del ‘400 e subito venerata e invocata come santa, Rita venne però beatificata solo nel 1628 e canonizzata addirittura nel 1900; tuttavia il popolo cristiano le ha sempre dimostrato un incredibile attaccamento.
Per i miracoli, certo. E anche per le leggende di cui ricco è il racconto della sua vita.
Tanto più che ella viene chiamata affettuosamente «la Santa degli impossibili», quella cioè a cui si può chiedere una grazia nelle situazioni più disperate e irrisolvibili.
La tradizione assegna la nascita di Rita al 1381 e la morte al 1457, ma queste date sono ritenute incerte.
Si può dire che Rita abbia ereditato la Chiesa così come l’ha lasciata Santa Caterina da Siena (che muore, appunto, un anno prima della sua nascita): una Chiesa uscita dal dramma dell' esilio di Avignone e ricaduta nella tragedia del grande Scisma d’Occidente (che si risolverà solo nel 1417).
Ma Cascia era abbastanza decentrata rispetto ai grandi avvenimenti storici e alle grandi questioni ecclesiali, dislocata com’era ai confini del Regno Pontificio e di quello di Napoli, retta come Repubblica con severi Statuti e politicamente divisa in fazioni di guelfi e di ghibellini.
Sappiamo con certezza che Rita apparteneva all’ambiente borghese e non era priva di istruzione: la tradizione ci parla dei suoi genitori piuttosto anziani e di qualche prodigio che ne avrebbe accompagnato la nascita (il più celebre è quello delle api che si posano sulla bocca della piccola ancora in fasce, senza pungerla, come a deporre il loro miele).
Le cronache antiche parlano anche della sua fanciullezza, «trascorsa con singolare innocenza e pietà…, in grandissimo desiderio di congiungersi strettamente con Dio».
Istintivamente noi saremmo tentati di attribuire questi racconti alla caratteristica sensibilità di un’epoca assai lontana dalla nostra, nella quale ragazzi e fanciulle crescono con attrattive e preoccupazioni ben diverse da quelle degli adolescenti di oggi.
Tuttavia possediamo un interessante libretto che circolava a Cascia in quei tempi, intitolato Regole per alcune anime devote: un manuale che doveva servire all’esame di coscienza e alla buona Confessione.
In particolare, dalla lettura del capitolo Della vanità delle donne, possiamo conoscere quali fossero i problemi e i peccati delle ragazze coetanee di Rita:
“Rifletti se ai imbiondito li capilli toi o facto le crespature sopra li occhi, o vero se li ai lavati con acqua artificiata… o se sei stata al sole colli capilli super le spalle per farli più belli. Se ai portato in capo corone de perle o de tremolanti o francie de seta o ghirlande de fiori, o vellete de seta o de lino molto sutile, artificiale… Se sei gita a la Messa, a la predica o ad altre perdonanze non tanto per amor di Dio né per devozione né in remissione delli toi peccati, quanto l’ai fatto per vagheggiare ed esser vagheggiata, ad ciò che se dica da altri: quella sì è una bella creatura. Se quando te dei vestire qualche cosa di nuovo ne ricevi in te grande consolatione e dilecto così che non solamente l’animo tuo el dì cercha questo sta occupato, ma ancora la nocte, e de le vestemente de l’anema pocho o niente n’ai cura…”.
L’avventura spirituale di Rita cominciò proprio con un miracolo: il miracolo di una «Parola» evangelica udita in tutta la sua profondità e ampiezza, a cui ella decise di dedicarsi completamente, accettando di incarnare questa parola nella sua esistenza.
Così riportano, infatti, le fonti biografiche:
“Stando una volta alla Santa Messa, questa nostra Beata Rita a Cascia […] le s’improntarono talmente nell’intelletto suo queste sante parole: «Ego sum Via Veritas et Vita», che… le cominciò talmente a considerare, che da quell’hora incominciò ferventissimamente ad amare questo Giesù, ed a servirlo… […] non poteva verità dire se non parlando con Lui, né poteva vivere se non con Lui, né poteva camminare se non con Lui, né insomma mai adoprare bene alcuno senza Lui… Perciò abbracciò e strinse strettamente il suo dolce Giesù”.
La fanciulla sentì dunque il desiderio di consacrarsi a Dio, restando in quel Monastero di claustrali in cui aveva udito quella decisiva e affascinante «Parola»; ma il volere dei genitori era allora determinante anche secondo gli Statuti vigenti a Cascia, e la ragazza dovette accettare il marito che le venne assegnato.
Alcuni cronisti dicono che la diedero sposa a un giovane «di costumi molto aspri», qualcuno lo descrive addirittura come «huomo molto feroce».
A questo punto, è necessario dilungarci un po’ sulla situazione sociale e politica della Cascia di allora.
Un documento del tempo la definisce «paese pieno di parzialità e di vendette»: Guelfi contro Ghibellini, sopraffazioni di nobili e borghesi contro plebei, liti e vendette fra famiglie, rivolte popolari, risse fra fazioni.
Il peggio era che ogni violenza si dilatava a macchia d’olio: l’odio covava per generazioni e si estendeva a vicini e congiunti, la vendetta poteva giungere anche dopo decenni.
Se poi c’era di mezzo una questione di donne, o di onore, le gelosie erano così assurde e le vendette così feroci che si diceva che un padre, dopo aver maritato una figlia, dovesse stare attento nel salutarla quando la incontrava per strada.
Questa premessa è necessaria se si vuole cogliere la figura di Santa Rita nella sua complessità e umanità: non solo una fervente cristiana, animata da un eccezionale trasporto spirituale, ma una sposa e una madre che, come buona parte delle donne che vivevano a Cascia in quegl’anni, ha dovuto affrontare dolorose tragedie familiari.
Fu probabilmente nel 1401 che il marito di Rita venne ucciso in un agguato.
Verosimilmente l’omicidio fu una conseguenza della ribellione popolare scoppiata nello stesso anno contro il Podestà.
Rita era madre di due ragazzi, forse gemelli, di circa quattordici anni.
L’angoscia per la morte dell’uomo amato (tanto che Rita era riuscita a cambiargli il carattere e a renderlo dolce e affettuoso) si faceva ancora più grave al pensiero della faida di sangue che stava per scatenarsi. Rita, infatti, conosceva la sua terra e la sua gente e sapeva che sarebbe iniziata susseguirsi inarrestabile di ritorsioni.
Se già naturalmente era difficile educare i figli al perdono, ciò diventava impossibile in un ambiente sociale che premeva per la vendetta.
Le famiglie legate per parentela al marito ucciso, infatti, guardavano ai suoi ragazzi, già abbastanza adulti, per ottenere un riscatto e ristabilire il proprio onore: essi erano ormai destinati alla violenza, a compierla prima per poi, a loro volta, subirla.
Se non restavano a loro volta uccisi, infatti, gli Statuti di Cascia prevedevano comunque la pena capitale per i vendicatori.
Nel migliore dei casi essi avrebbero dovuto fuggire dalla città e vivere come esuli lontani dalla madre.
Così, il cronista racconta che Rita «si diede con meravigliosa charità ad addolcire gli animi loro e a disporli non soltanto alla dimenticanza, ma al perdono del commesso misfatto».
Dovette però accorgersi che nemmeno lei riusciva a imprimere nel cuore dei ragazzi la legge del perdono. La Santa arrivò dunque fino al punto di pregare Dio affinché riprendesse con sé i suoi figli, ai quali vedeva assegnato un terribile destino di morte. Un gesto inaccettabile per la sensibilità moderna, ma che testimonia la fiducia completa che Rita nutriva nei confronti di Dio.
Rimasta sola, la sventurata madre pensò di affidare anche se stessa totalmente nelle mani del Signore: chiese, quindi, di entrare nel convento delle agostiniane.
Venne tuttavia rifiutata. I tristi avvenimenti della sua vita continuavano a pesare: accogliere una «vedova di sangue» nel monastero voleva dire coinvolgere nella faida anche quel luogo sacro e le sue ospiti.
Rita comprese che quelle porte non si sarebbero aperte se non si fosse prima giunti a una pacificazione tra il parentado dell’uccisore e quello dell’ucciso.
E lei stessa affrontò la fatica di tessere legami di perdono. Quanto odio e quanto rancore dovette accettare su di sé, quanto disprezzo e quanti rifiuti, prima che i cuori induriti si sciogliessero?
Fu un lungo ed estenuante lavoro e, nonostante questo, il risultato venne come un miracolo.
La tradizione si limita a raccontare che le monache rifiutarono più volte di aprirle le porte del monastero, fin quando Rita non riuscì ad entrare in clausura a porte chiuse, miracolosamente guidata e assistita da San Giovanni Battista, Sant’Agostino e San Nicola da Tolentino (i patroni del luogo).
S. Rita accompagnata nel monastero da S. Agostino e da S. Nicola
E lì, in una piccola cella, Rita condusse una vita di penitenza e di preghiera.
Quasi tutto quello che sappiamo dell’esperienza spirituale di Rita e del suo cammino di santità, lo sappiamo da una testimonianza caratteristica: dai dipinti e da un’iscrizione poetica riportati sulla sua cassa funebre.
L’immagine che risalta è quella di una donna forte che dalla Croce di Cristo trasse la sua luce e il suo fuoco, alla quale non furono risparmiate nel mondo le più atroci sofferenze e le piaghe più oscure e insanabili, e che niente considerò suo merito o guadagno se non il ricevere una delle spine della corona di Cristo.
In ogni raffigurazione, Rita porta sempre in fronte il segno della sua mistica piaga.
Durante gli ultimi giorni di vita un altro episodio venne ad abbellire e impreziosire la sua leggenda:
“Nel più aspro rigore dell’inverno, essendo ogni cosa coperta di neve, una buona parente fu a visitarla; nel partire le chiese se da casa sua voleva cosa alcuna. Rispose Rita che avrebbe desiderato una rosa e due fichi del suo orto. Sorrise la buona donna, credendo ch’ella delirasse per la violenza del male, e se n’andò. Giunta a casa ed entrata ad altro fine nell’orto, vide sulle spine spogliate d’ogni verdura e cariche di neve una bellissima rosa, e sulla pianta due fichi ben maturi; e ben rimasta attonita per la contrarietà della stagione e per la qualità di quel freddissimo clima, veduti il fiore e i frutti miracolosi li colse e a Rita li portò”.
E’ questo l’episodio che spiega la tradizione delle rose: dovunque c’è una chiesa a lei dedicata, nel giorno della sua festa (22 maggio), è tutto un accorrere di devoti che portano mazzi di rose che vengono benedette.
Non solo un miracolo, ma un mistico scambio: per tanti anni Rita aveva portato sulla sua fronte la dolorosa ferita della spina; ora, al termine della sua sofferenza, Cristo le donava in cambio una rosa.
Quando Rita morì si verificò un ininterrotto afflusso di conoscenti e di devoti, mentre un intenso profumo emanava dal suo corpo al punto che esso, secondo un’antica testimonianza, «non fu mai sepolto e non si è mai corrotto».
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