Fin dal XII secolo, con lo sviluppo dell’economia cittadina, artigiani e commercianti avevano organizzato la propria attività in aziende familiari autosufficienti in cui lavoravano entrambi i membri della coppia. Spesso una stessa famiglia esercitava grande e piccolo commercio, e in tal caso alle donne era affidato il commercio al dettaglio mentre gli uomini si spostavano per affari più consistenti. Nel secolo successivo si contavano già numerose donne che esercitavano il proprio grande commercio, ma solo nelle città commerciali dell’Italia centro-settentrionale, mentre tra il XIV e il XV secolo le grandi società commerciali a partecipazione femminile si diffusero anche nel resto dell’Europa.
Molto più comune era il lavoro artigianale, soprattutto nel ramo tessile e nella produzione alimentare, ma non mancano esempi di donne occupate nella metallurgia e nell’edilizia. Nelle botteghe artigiane le donne erano per lo più apprendiste o aiutanti, e venivano retribuite con un salario di circa un terzo inferiore a quello degli uomini. In alcuni settori, come la lavorazione di lusso, furono numerose anche le donne che divennero maestre. L’accesso alle corporazioni variava secondo il ramo di attività e la forza delle lavoratrici. Se a Parigi e a Colonia furono fondate corporazioni esclusivamente femminili (filatrici d’oro e ricamatrici di seta), in altri casi esse potevano entrare nelle corporazioni con gli stessi diritti e gli stessi doveri degli uomini. Il più antico esempio è quello della corporazione di pellicciai di Basilea (1266).
Lo sviluppo dell’economia cittadina, nel XII-XIV secolo fu dunque in gran parte fondata sul lavoro femminile. Esso fu invece significativamente ridotto, almeno nelle forme del lavoro dipendente organizzato, nel periodo successivo.
Il Quattrocento e il Cinquecento offrirono maggiori occasioni di guadagno alle donne legate ai grandi traffici commerciali, mentre diminuì il numero delle lavoratrici salariate. In altri settori non vi furono invece significativi mutamenti: le donne continuarono ad essere escluse dalle professioni che richiedevano una preparazione universitaria, come il diritto, e rimasero numerose nelle attività meno qualificate, in particolare nel servizio domestico (una famiglia di media borghesia disponeva di una decina di dipendenti e domestici di entrambi i sessi ma con prevalenza delle donne).
…E IN CAMPAGNA
Nelle campagne il lavoro delle donne non cambiò sensibilmente fino al XVI secolo. Nelle aziende familiari rurali esse continuarono a occuparsi, come nei secoli precedenti, della casa e dell’orto, del bestiame minuto e della produzione casearia, della preparazione del pane e, nei paesi nordici, della birra di uso quotidiano. Le lavoratrici salariate erano chiamate per la tosatura delle pecore, il dissodamento dell’orto, la mietitura, mentre la vendemmia e la raccolta di cereali ed erbaggi erano attività svolte indifferentemente da uomini e donne. Fin dalla prima penetrazione del denaro nell’economia rurale le donne si erano poi impegnate ad aumentare le entrate familiari con attività che andavano oltre la casa e il proprio campo, in particolare con il commercio dei generi da esse stesse prodotti – latte, burro, formaggi, frutta, verdura, ma anche stoffe e sapone. Una nuova occasione di guadagno si offrì alle donne con il lavoro a domicilio. Nelle zone e nei periodi in cui si diffuse la “manifattura dispersa” e la produzione tessile si sottrasse al controllo delle corporazioni spostandosi dalle città nelle campagne, il lavoro salariato fu svolto soprattutto dalle donne, come filatrici. In alcuni casi serviva il filo prodotto da quindici filatrici per il lavoro di un solo tessitore.
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